Macroalghe invasive: una minaccia per il Mediterraneo?

Dott. Ivan Guala,

Ricercatore presso la Fondazione IMC – International Marine Centre – Onlus di Oristano

Caulerpa racemosa – foto di Luca Tiberti

A dar retta ai titoli di certi giornali sembra che immergersi di questi tempi stia diventando sempre più pericoloso: il Mediterraneo è ormai meta preferenziale di “alieni”, mentre specie invasive e pericolose “alghe killer” vagano minacciose per i nostri mari.

Non facciamoci prendere dal panico, si tratta ovviamente di eccessi mediatici che tuttavia hanno un fondo di verità. D’altra parte questa terminologia viene spesso usata anche in ambito scientifico.

Se fino a poco tempo fa parlando di alieni, facevamo riferimento a degli improbabili esseri antropomorfi come quelli dei film, preferibilmente di colore verde e generalmente cattivissimi, oggi nel campo delle Scienze dell’ambiente, vengono definite aliene quelle specie animali o vegetali che, giunte in un nuovo ambiente vi si stabiliscono formando delle popolazioni stabili. Non si tratta quindi di esseri provenienti da qualche lontano pianeta, ma di organismi capaci di spostarsi o di essere trasportati da una parte all’altra del mondo.

Le introduzioni di questi organismi, più propriamente definiti “alloctoni” o “non-nativi”, negli ultimi anni sono aumentate notevolmente in tutte le parti del mondo, stimolando l’interesse della comunità scientifica, soprattutto in virtù dei potenziali effetti sull’ambiente e sulle attività umane.

In ambiente marino questo fenomeno assume connotazioni particolari data l’impossibilità di continue ed esaustive osservazioni; la comparsa delle specie aliene sembra avvenire improvvisamente e spesso in modo massivo, anche se magari la loro diffusione è avvenuta gradualmente e in tempi molto lunghi.

Ma come avvengono queste introduzioni e quali sono i fattori che ne hanno favorito l’incremento? E soprattutto quali effetti possono avere e come facciamo noi subacquei a riconoscerle?

Dato che il mio campo di interesse è quello della vegetazione marina, in questa sede faremo riferimento esclusivamente ad alcune specie macroalgali più comuni, lasciando ad altri il compito di discutere di pesci e coralli e altri animali, sebbene alcuni concetti abbiano una valenza generale.

Le attività antropiche hanno un ruolo primario nel trasportare gli organismi da una parte all’altra del mondo.

La globalizzazione dei mercati e l’incremento dei trasporti via mare favoriscono la diffusione delle specie al di fuori delle loro aree geografiche di origine; si pensi alle acque di zavorra (“ballast water” in inglese) che le navi utilizzano per aumentare la stabilità durante i viaggi transoceanici: ogni nave è capace di prelevare migliaia di metri cubi di acqua di mare che poi viene scaricata nei porti di destinazione, e con essa una quantità smisurata di organismi planctonici e di stadi larvali di organismi bentonici (che vivono a contatto con il fondo del mare), nonché di spore e frammenti algali.

ballast water

fouling

Relativamente alle macroalghe il più importante vettore di introduzione è probabilmente l’acquacoltura.

Alcune specie di interesse commerciale (es. Undaria pinnatifida, utilizzata nell’industria alimentare) vengono coltivate e possono diffondersi in aree dove precedentemente non erano presenti, altre vengono introdotte accidentalmente assieme agli organismi allevati; ad esempio le ostriche importate dal Giappone vengono coperte con alghe umide che ne assicurano la sopravvivenza durante il trasporto: frammenti di queste alghe o altre che crescono sulla superficie delle conchiglie possono liberarsi e svilupparsi facilmente nel nuovo ambiente. In questo modo si spiega come alcune lagune costiere del Mediterraneo, famose per l’allevamento delle ostriche, rappresentino delle zone di particolare rilevanza anche per la presenza di specie aliene: nello stagno di Thau, presso Marsiglia, gli esperti francesi hanno individuato la presenza di oltre 40 specie algali introdotte, circa il 50% di quelle presenti in tutto il Mediterraneo.

Alcune specie viaggiano da un continente all’altro fissandosi alle carene delle navi (fouling), mentre altre migrano attraverso canali naturali (es. Gibilterra) o artificiali (es. Suez);

l’acquariologia, la pesca e la ricerca scientifica possono rappresentare altre importanti sorgenti di introduzione e di dispersione delle specie aliene.

Una volta introdotte queste specie possono rimanere incospicue per lungo tempo oppure, qualora trovino le condizioni ambientali adatte e in mancanza di competitori e di predatori, possono diffondersi rapidamente, diventando invasive, provocando mutamenti anche radicali all’ambiente e talvolta effetti negativi alle attività umane.

Le specie originarie di mari caldi sembrano meglio adattarsi alle condizioni mediterranee; d’altra parte da molti anni il trend termico dei nostri mari mostra un innalzamento della temperatura, soprattutto delle minime invernali, che favorisce l’affermarsi anche di specie tropicali (da cui il cosiddetto fenomeno della “tropicalizzazione” del Mediterraneo).

L’esempio più conosciuto, per il risalto mediatico di cui è stato protagonista, è senz’altro quello dalla Caulerpa taxifolia. Si tratta di un’alga verde (già, proprio come gli alieni dei film!), appartenente alla famiglia delle Caulerpales, che agli inizi degli anni ’80 cominciò a colonizzare i fondali del Mediterraneo settentrionale a partire da quelli antistanti il Museo oceanografico di Monaco. Secondo alcuni ricercatori l’introduzione di quest’alga è da imputare proprio agli acquari del Museo da cui sarebbe stata liberata in seguito alla pulizia delle vasche; la lunga e talvolta feroce polemica che è seguita con i responsabili del Museo, non ha impedito all’alga di diffondersi rapidamente colonizzando qualsiasi tipo di substrato fino a profondità superiori a 80 m. L’alga, capace di riprodursi per frammentazione, per cui da ciascun frammento può svilupparsi un nuovo individuo perfettamente autosufficiente, ha invaso in breve tempo le coste settentrionali del Mediterraneo ed è stata segnalata anche alle Baleari, in Sardegna, in Sicilia, in Campania, in Tunisia e lungo le coste croate. L’azione delle reti da pesca, degli ancoraggi, del moto ondoso e delle correnti sembra sia alla base della dispersione di questa specie sia su scala locale che di bacino.

Caulerpa taxifolia

Caulerpa racemosa

 

C. taxifolia è costituita da uno stolone rampante da cui dipartono rizoidi ramificati che lo ancorano al fondo e lunghe fronde, anche oltre 70 cm, di un bel verde brillante. La sua impressionante capacità di crescita le permette di coprire rapidamente i substrati colonizzati e di formare praterie molto fitte che riducono lo sviluppo di numerose specie animali e vegetali locali. Questa capacità invasiva probabilmente è agevolata dalla presenza di alcuni composti metabolici tossici, che le specie di questa famiglia sono capaci di sintetizzare e che sembra vengano utilizzati per ostacolare l’attacco da parte di erbivori e nella competizione con altre specie.

Un discorso analogo può essere fatto per un altro esponente delle Caulerpales, la Caulerpa racemosa, pure di origine tropicale, che, segnalata per la prima volta in Mediterraneo nel 1926, oggi è diffusa in tutto il bacino in virtù di una rapida espansione avvenuta negli ultimi 10 anni. Questa specie, più discreta della C. taxifolia riguardo alle dimensioni (le fronde, simili a dei piccoli grappoli non superano i 15 cm di altezza), non lo è in termini di “capacità invasiva” che la rende vincente anche in una competizione interspecifica tra “cugine”!

Caulerpa racemosa

Entrambe le specie sono caratterizzate da una certa stagionalità per cui in immersione è più facile incontrarle durante l’estate quando la temperatura dell’acqua è più alta.

Soprattutto C. racemosa durante i mesi freddi quasi scompare: i piccoli rametti a grappolo si riducono e rimangono soltanto gli stoloni striscianti che formano una densa e intricata rete nascosta sotto uno spesso feltro algale; alla fine della primavera successiva l’alga riacquista tutta la sua vitalità.

Fortunatamente non tutte le specie introdotte diventano invasive (in Mediterraneo lo sono circa il 10% delle alghe alloctone) cosi come non tutte quelle invasive sono necessariamente introdotte. Alcune specie già presenti in un certo ambiente e in equilibrio con esso, a causa del mutare delle condizioni ambientali, possono aumentare il loro “range” di espansione fino a colonizzare aree dove precedentemente non si trovavano.

L’incremento termico registrato nel Mediterraneo occidentale in questo caso determina un fenomeno di “meridionalizzazione” per cui specie presenti da tempi immemori esclusivamente nel bacino Levantino, tendono ora a portarsi sempre più a nord.

È il caso di numerosi pesci come il luccio di mare (Sphyraena sphyraena) e la donzella pavonia (Thalassoma pavo) ed è probabilmente il caso, seppure ancora molto controverso, dell’Asparagopsis taxiformis, una bella alga rossa descritta per la prima volta lungo le coste di Alessandria d’Egitto quasi due secoli fa. A causa della sua distribuzione pan-tropicale alcuni ricercatori ritengono che si tratti di una specie introdotta in Mediterraneo; alcuni incorrono senz’altro in un grossolano errore quando la definiscono “lessepsiana” ossia introdotta dal Mar Rosso in seguito all’apertura del Canale di Suez (Ferdinand de Lesseps era il diplomatico francese che promosse la costruzione del canale); in realtà la sua prima segnalazione (1813) risale a oltre 50 anni prima l’apertura del canale (1869).

Alcuni studi che utilizzano analisi genetiche, sono attualmente in corso per stabilire effettivamente l’area di origine della specie e per ricostruire le sue direttive di espansione. Che si tratti di una specie introdotta o meno, recentemente A. taxiformis ha mostrato un comportamento invasivo, crescendo rapidamente e occupando ampie superfici laddove in precedenza era segnalata con coperture estremamente ridotte o era del tutto assente.

Asparagopsis taxiformis

Falkenbergia hillebrandii

Si tratta di un’alga cespugliosa, alta circa 30 cm, di colore rosso scuro che colonizza substrati rocciosi fino a circa 30 m di profondità; in superficie forma delle cinture continue che vengono spazzate dalle onde; se ci immergiamo dopo una mareggiata è facile riconoscerne, flottanti, i frammenti, anche di grandi dimensioni, e addirittura interi cespugli. Ha un ciclo vitale eteromorfo: durante la stagione calda la forma descritta tende a regredire e a essere rimpiazzata da uno stadio morfologicamente diverso, più piccolo, simile a un batuffolo filamentoso rosa, noto come Falkenbergia hillebrandii, perché in passato si riteneva fosse una specie distinta.

Altre alghe pur avendo un andamento invasivo sono di difficile riconoscimento senza conoscenze specifiche e magari l’ausilio di un microscopio, perciò ci limitiamo a descrivere queste tre specie, senz’altro quelle che più facilmente possono essere riconosciute anche da un occhio non particolarmente esperto; non a caso innumerevoli segnalazioni sono avvenute ad opera di subacquei e pescatori sensibilizzati o semplicemente incuriositi dall’incontro con una nuova specie.

Tutte le specie invasive comunque sono caratterizzate dalla capacità di espandersi rapidamente, di sostituire le specie native e di deprimere la biodiversità della comunità locale, giocando un ruolo rilevante nell’ecosistema ricevente. Per questo motivo molti ricercatori indicano le invasioni biologiche come una seria minaccia per l’ambiente marino.

Poiché l’ecologia è spesso strettamente interconnessa all’economia, esse rappresentano una possibile minaccia anche per molte attività umane, come ad esempio la pesca, l’acquacoltura e il turismo. Le aree invase possono infatti subire una drastica riduzione degli stock ittici, le reti e le nasse dei pescatori necessitano di lunghe e costose operazioni di rimozione delle fronde e lo stesso vale per gli organismi allevati (ci riferiamo alla pulizia delle conchiglie delle ostriche).

Anche l’industria del diving può essere seriamente penalizzata: l’immersione su una prateria di Caulerpa, se dapprima può destare interesse per la novità di incontrare una nuova specie, alla lunga, e neppure tanto, diventa monotona: chi di noi è disposto a pagare il costo di un’immersione per vedere sempre e solo una distesa di fronde verdi?

Siamo allora di fronte a una reale minaccia? A nostro avviso non dobbiamo farci prendere la mano da inutili o sproporzionati allarmismi: una nuova specie può anche portare effetti positivi all’ambiente ricevente e inoltre occorre tenere presente che una nuova introduzione è spesso seguita da una fase di crescita esponenziale della specie per poi arrivare a uno stato di equilibrio. Ma non dobbiamo neppure abbassare la guardia: studi a lungo termine e continui monitoraggi sono necessari al fine di conoscere la distribuzione spaziale e l’abbondanza delle specie invasive, di valutare tutti i possibili vettori di introduzione, di stimare la sensibilità degli ecosistemi alle invasioni e i fattori che le favoriscono; l’occhio attento dei subacquei può aiutare i ricercatori ad acquisire le conoscenze necessarie per una corretta gestione della fascia costiera.

Una cosa è certa: possiamo continuare a immergerci senza timore.

foto di Archivio SZN – Laboratorio di Ecologia del Benthos – si ringrazia per la gentile concessione.


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